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Foglie e licheni alla ricerca delle polveri sottili
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- Scritto da Sara Stopponi
Persona dell’anno per il 2019 secondo la rivista statunitense “Time”, la giovanissima attivista svedese Greta Thunberg è il simbolo contemporaneo per eccellenza della lotta all’inquinamento e al cambiamento climatico. Il suo slogan “Skolstrejk för klimatet” è riuscito a unire sotto un’unica egida ragazzi provenienti da ogni angolo del mondo per chiedere ai potenti del pianeta di invertire la rotta e iniziare finalmente a occuparsi di ambiente in modo sistematico e produttivo.
Ma qual è lo stato attuale delle nostre conoscenze sui danni derivanti, ad esempio, dalle polveri sottili? L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stimato che questi particolati, che vengono solitamente classificati come PM10 e PM2.5, in base al loro diametro aereodinamico, provocano circa due milioni di vittime ogni anno nel mondo, di cui 400.000 nella sola Europa. Cresce, pertanto, l’interesse generale a rendere sempre più specifici i metodi di indagine che possano aiutare a monitorare il PM e a mitigarne gli effetti, per adottare opportune strategie che aiutino a contrastarne la diffusione e l’accumulo.
L’INGV è impegnato da tanti anni nello studio delle caratteristiche e della natura delle polveri sottili, mediante tecniche originali di laboratorio solitamente legate al magnetismo delle rocce. Recentemente, un team di ricercatori dell’Istituto, con un articolo pubblicato sulla rivista “Science of the Total Environment”, ha presentato i risultati di una innovativa ricerca che, tramite il biomonitoraggio magnetico di licheni, ha permesso di delineare l’inquinamento atmosferico in una zona particolarmente complessa della periferia di Roma.
Ne abbiamo parlato con Aldo Winkler, primo tecnologo INGV e responsabile del Laboratorio di Paleomagnetismo dell’Ente.
Aldo, il vostro studio si basa su metodi analitici tipici del magnetismo delle rocce: di cosa si tratta?
Iniziamo col dire che le rocce possono avere delle proprietà magnetiche legate ai minerali che le compongono.
In particolare, nel settore tematico del paleomagnetismo, di cui ci occupiamo nel nostro laboratorio, siamo interessati alle rocce che hanno proprietà magnetiche intense e stabili nel tempo, in quanto contenenti minerali, solitamente ossidi di ferro, che conferiscono loro caratteristiche di “ferromagnetismo”. Il minerale magnetico più noto e idoneo per ricerche paleomagnetiche è la magnetite, un ossido di ferro estremamente diffuso che, soprattutto quando è presente nelle rocce in dimensioni molto piccole, dell’ordine di centesimi di micrometro, può mantenere una registrazione del campo magnetico della Terra anche per miliardi di anni. Le rocce contenenti magnetite ci hanno permesso, ad esempio, di conoscere le inversioni del campo magnetico del nostro pianeta, o di ricostruire la posizione dei continenti nel passato geologico.
In questo contesto, il nostro Lab ha sviluppato ed espanso le proprie dotazioni strumentali e analitiche per indagare il comportamento magnetico della materia, con applicazioni in tutti quei settori in cui a partire dalle proprietà magnetiche - non soltanto di rocce, ma anche di mezzi biologici, tecnologici o manufatti - è possibile capire qualcosa in più sulle loro caratteristiche generali e sulle frazioni magnetiche che li costituiscono, senza dover ricorrere a complesse e costose indagini ottiche e chimiche. Arriviamo, pertanto, al magnetismo applicato alle scienze ambientali, in cui i minerali magnetici sono interessanti indicatori di inquinamento atmosferico.
Come nasce, quindi, il settore di studio del monitoraggio magnetico dell’inquinamento atmosferico?
Quasi venti anni fa, nell’ambito di un progetto europeo sul magnetismo delle rocce, Barbara Maher, dell’Università di Lancaster, promosse l’idea di applicare i metodi magnetici allo studio dell’inquinamento atmosferico e delle polveri sottili. Ci occupammo quindi di studiare le proprietà magnetiche delle foglie di Roma, dividendosi in squadre e campionando diverse tipologie di alberi in varie zone della città. Riuscimmo così a completare il primo biomonitoraggio magnetico dell’inquinamento atmosferico a Roma, dimostrando la fattibilità di utilizzare le proprietà magnetiche delle foglie come indicatore della concentrazione di particolati metallici dovuti al traffico cittadino.
Cosa è cambiato in questi venti anni?
La tematica, e principi basilari, sono rimasti piuttosto simili; nel frattempo, anche grazie a questi studi, sono notevolmente migliorate le dotazioni strumentali del laboratorio, soprattutto da quando disponiamo di uno strumento per effettuare i cicli d’isteresi, ossia le curve che descrivono come cambia la magnetizzazione di un corpo quando varia il campo magnetico applicato. In questi 20 anni sono state elaborate tecniche analitiche sempre più complesse e raffinate, che ormai lambiscono la struttura e i fondamenti magnetici della materia. Eppure, il principio alla base del biomonitoraggio magnetico è rimasto sempre lo stesso: i mezzi biologici, in genere, hanno caratteristiche di “diamagnetismo”, ossia di magnetismo estremamente flebile e non duraturo nel tempo. Le intense proprietà magnetiche delle foglie campionate in prossimità di strade e aree a intensa caratterizzazione antropica dipendono dall’accumulo di particolati metallici emessi dai freni e dai tubi di scappamento, per quello che riguarda le automobili, o da sorgenti industriali e discariche.
Nel tempo, le nostre indagini sono diventate così raffinate da riuscire a distinguere, in base alle proprietà magnetiche, se i particolati accumulati derivano da freni, esausti di carburanti diesel o benzine.
Inoltre, a livello internazionale, queste tecniche hanno avuto una risonanza particolare grazie ad alcuni studi che hanno messo in relazione le polveri magnetiche ultrafini da inquinamento atmosferico, di dimensioni inferiori ai 30 nanometri, a problemi cardiaci e morbo di Alzheimer. Si sta quindi iniziando a comprendere, anche a livello epidemiologico, il collegamento tra le polveri sottili e i danni che provocano nell’essere umano.
Come si è arrivati all’utilizzo dei licheni per il biomonitoraggio a Roma?
In questo caso, il passo fondamentale è stato quello di collaborare con i Dipartimenti di Scienze della Vita delle Università di Siena e di Trieste, che ci hanno introdotto alla bioindicazione ambientale con i licheni, rendendo interdisciplinari le nostre ricerche e, soprattutto, completandole con la parte biologica. I licheni, infatti, sono indicatori biologici di inquinamento atmosferico noti per la loro capacità di adattamento anche in aree estreme. Inoltre, campioni puliti, provenienti da aree non inquinate, possono essere trapiantati in zone di cui è interessante valutare l’effetto, nel tempo, della loro esposizione all’inquinamento atmosferico, valutandone la variazione delle proprietà chimiche, magnetiche e funzionali.
Dopo aver conseguito interessanti risultati scientifici, misurando le proprietà magnetiche di licheni esposti in aree industriali in Nord Italia e in Slovacchia, nel 2017 è stato siglato un accordo scientifico con ARPA Lazio – l’Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale – per contribuire alla caratterizzazione dell’inquinamento atmosferico in zone di particolare impatto ambientale. Abbiamo selezionato, come area di studio, la periferia est di Roma, in zona via di Salone, a causa delle ricorrenti attività fraudolente di combustioni all’aperto, operate in prossimità di campi Rom, atte a ricavare metalli, in particolare rame, da rifiuti accumulati in discariche spontanee.
Come si è svolta l’indagine?
Nel luglio del 2017 abbiamo realizzato una prima campagna esplorativa per ricavare dei campioni lichenici cosiddetti “pilota”, volti a verificare la fattibilità dello studio. L’area è risultata particolarmente complessa, dal punto di vista ambientale, per la compresenza di varie sorgenti emissive, legate a traffico e attività industriali e manifatturiere di vario genere.
Abbiamo rinvenuto pochi siti con licheni vitali, anche a causa dell’estate particolarmente calda, per cui abbiamo esteso l’area di indagine a una zona con problematiche simili, in prossimità di Tivoli, per poi arricchire ulteriormente il set con campioni trapiantati, originari del Terminillo, ed esposti per circa 4 mesi. Le caratteristiche magnetiche sono risultate intense e indicative di un ingente accumulo di particolato magnetico di presumibile origine antropica.
Come siete giunti a questi risultati?
Le prime analisi magnetiche, molto rapide, consistono nella misurazione della suscettività magnetica dei licheni, ossia la loro capacità di magnetizzarsi, indicativa della concentrazione di minerali magnetici presenti nei campioni in esame. I valori misurati hanno subito comprovato l’importante accumulo di particolato magnetico.
In seguito, per ogni campione, sono stati ricavati i cicli d’isteresi, che ci hanno permesso di capire che i minerali magnetici bioaccumulati dai licheni sono riconducibili a magnetite, di cui siamo in grado di dare anche una stima granulometrica, aspetto fondamentale dal punto di vista ambientale.
Quali sono stati i risultati principali che avete ottenuto?
Innanzitutto, ci siamo resi conto di quanto siano potenti, e fondamentali, i metodi interdisciplinari per caratterizzare l’inquinamento atmosferico, consentendo di integrare i classici dati basati sull’uso di centraline automatiche, peraltro non disponibili nella zona in esame.
Integrando le analisi chimiche sui licheni, effettuate dall’ARPA, le analisi di tipo magnetico e quelle di microscopia elettronica, effettuate presso il laboratorio HP-HT dell’INGV, siamo riusciti a caratterizzare quale fosse la composizione chimica e la morfologia dei minerali magnetici accumulati dai licheni, dimostrando la relazione tra la concentrazione di ossidi di ferro e quella di metalli pesanti quali rame, cromo, piombo e zinco, di cui è noto l’impatto ambientale.
L’emozione maggiore che ho provato durante questo studio è stata al momento di vedere al SEM - Il microscopio elettronico a scansione - le particelle magnetiche di cui avevamo dedotto la presenza grazie alle analisi magnetiche e chimiche, inglobate nei tessuti lichenici e di forma sferica, proprio come ci si aspettava per i prodotti di combustione.
Come ulteriore considerazione, durante il campionamento era frequente incontrare greggi di pecore a brucare l’erba; questo può dare un’idea di quale sia il pericolo connesso alla diffusione di polveri inquinanti, anche per la parte non inalata o respirata che, ricadendo nel terreno, finisce nel ciclo alimentare.
Che differenze ci sono nell’utilizzo di foglie e licheni?
Sono due tipologie di campione molto diverse, per caratteristiche biologiche ed espositive: per esempio, i licheni possono vivere anche molti anni, mentre le foglie, soprattutto in ambito urbano, possono essere stagionali o annuali. Il lichene può quindi fornire una indicazione anche pluriennale delle condizioni di accumulo e di inquinamento in una determinata zona. Direi che la preferenza dipende sostanzialmente dal tipo di contesto. In città, è più facile e rappresentativo utilizzare le foglie; quelle di leccio e platano, per esempio sono ben diffuse su tutto il territorio cittadino di Roma.
È necessario ricorrere a licheni quando si devono studiare aree non vegetative, o in cui è necessario svolgere un monitoraggio con particolari caratteristiche di regolarità dei punti di esposizione, utilizzando la tecnica dei trapianti.
Che applicazione potranno verosimilmente avere questi risultati nella programmazione e nella gestione dei piani anti-inquinamento delle nostre città?
Lo strumento principe per la rilevazione dell’inquinamento atmosferico resta inevitabilmente la centralina, principalmente per motivi normativi, che individuano, a partire dalle concentrazioni di PM10 e PM2.5, le soglie da non superarsi per non incorrere in sanzioni. I licheni, come bioindicatori, stanno suscitando un grande interesse anche dal punto di vista della botanica forense, per l’identificazione degli inquinanti, e dei loro effetti biologici, in aree ambientali complesse. Da un punto di vista normativo, è importante che si proceda nella consapevolezza che il monitoraggio dell’inquinamento atmosferico debba sempre più acquisire dei connotati multidisciplinari, per esempio per favorire la cosiddetta “speciazione” delle polveri, volta al riconoscimento e alla distinzione delle sorgenti emissive attraverso l’interpretazione analitica delle differenti caratteristiche compositive e granulometriche. Infine, soprattutto per quel che riguarda le foglie, sono in corso da diversi anni progettazioni degli arredi urbani che contemplino la diffusa presenza di alberi e siepi in qualità di accumulatori del particolato, intercettato, mi viene da dire, in nostra vece.
Nel corso degli anni l’INGV ha aderito a numerosi progetti di alternanza Scuola Lavoro per avvicinare i ragazzi alle tematiche studiate in Istituto: qualcuno di questi ha riguardato anche il biomonitoraggio?
Sì, abbiamo attivato diversi progetti in questo ambito, e dovremmo, a breve, iniziarne un altro, secondo le nuove linee dei PCTO: tutti i cicli hanno riguardato i metodi per caratterizzare l’inquinamento atmosferico con tecniche magnetiche. I ragazzi sono stati parte attiva in tutte le fasi del lavoro, dal campionamento alle esperienze di laboratorio. Dopo tre esperienze sulle foglie, è stato effettuato un rilievo delle polveri sottili nelle scuole, per capire quali fossero le zone più soggette a inquinamento indoor, campionando le polveri deposte in diverse aree degli istituti scolastici (vicino alla fotocopiatrice, nella palestra, e così via) e individuare la dispersione delle polveri in ambiente scolastico.
I risultati scientifici più rilevanti sono stati conseguiti ad Ariccia, in Via della Cancelliera, dove gli studenti hanno potuto verificare gli effetti dell’incendio di un capannone industriale sulle proprietà magnetiche delle foglie campionate in alberi limitrofi.
Il nuovo progetto, in corso di pianificazione, riguarderà l’indoor automobilistico, mediante lo studio dei filtri dell’aria condizionata, per delineare l’importanza dei dispositivi di protezione ambientale anche dentro le nostre macchine.
Quali saranno i prossimi passi dell’INGV nel biomonitoraggio con tecniche magnetiche?
Da diverso tempo stiamo portando avanti un’innovativa collaborazione con il Dipartimento di Biologia Ambientale dell’Università “La Sapienza” di Roma, volta ad un approccio integrato per il monitoraggio della qualità ambientale della città di Roma. Lo studio vuole dimostrare come le caratteristiche magnetiche siano un indicatore del deterioramento funzionale delle foglie esposte in aree trafficate. Questi studi sono già stati oggetto di tre tesi di laurea, di cui sono stato correlatore.
Stanno proseguendo le collaborazioni con l’Università di Siena, mediante uno studio integrato con metodi biologici e magnetici su licheni trapianti a Milano, per determinare le principali direttrici di bioaccumulo delle polveri sottili nel capoluogo lombardo; questo studio sarà oggetto di una relazione ad invito alla prossima conferenza internazionale sulla qualità dell’aria a Salonicco.
Infine, come risultato della fruttuosa collaborazione instaurata in merito a via di Salone, è stata rinnovata la collaborazione scientifica con ARPA Lazio ed è in fase di studio una convenzione che possa contribuire al Piano di risanamento ambientale promosso dalla Regione Lazio, con il prezioso contributo del Dipartimento di Chimica dell’Università “La Sapienza” di Roma. Questa volta, come già accaduto in passato, in occasione di una convenzione stipulata con la Regione Lazio, utilizzeremo, per le nostre analisi, i filtri PM10 e PM2.5 che ARPA Lazio gestisce sul territorio regionale. Sarà un interessante studio volto alla definizione delle sorgenti inquinanti in alcune aree ritenute cruciali a causa del loro impatto ambientale.