Newsletter n.2
Intervista a Daniele Franco, Ministro dell’Economia e delle Finanze
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- Scritto da Valeria De Paola e Francesca Pezzella
Il finanziamento della ricerca si sta delineando come uno dei target principali dei Paesi europei nei piani di intervento a sostegno della crescita.
In Italia, dove la ricerca scientifica non è mai stata vista come un “asset” principale dell’economia del nostro Paese, un intervento economico in questo settore con valori importanti costituirebbe una svolta culturale.
Ma il rilancio della ricerca può veramente offrire un impulso positivo al sistema produttivo dell’Italia? Lo abbiamo chiesto al dott. Daniele Franco, nelle prime settimane di febbraio, nel suo ruolo di Direttore Generale della Banca d’Italia e di Presidente dell’IVASS. Dal 13 febbraio Daniele Franco è il Ministro dell’Economia e delle Finanze della Repubblica italiana. Le sue parole e la sua visione del futuro, anche negli incentivi economici alla ricerca, assumono - ora - un valore quanto mai assoluto, proprio in vista della grande sfida economica che l’Italia affronterà nei prossimi anni.
Presidente Franco, la Banca d’Italia svolge la funzione di politica monetaria prendendo parte alle decisioni della BCE nell’interesse dei Paesi dell’area dell’euro. A causa della pandemia stiamo vivendo un momento molto difficile con pesanti ricadute sulla situazione economica e sociale del nostro Paese e del resto d’Europa, oltre che del mondo. In questo contesto, quale è il ruolo della Banca d’Italia e quali sono le principali misure di politica monetaria adottate a livello europeo per far fronte alle gravi conseguenze dell’emergenza sanitaria?
La pandemia ha colpito milioni di persone e causato moltissime vittime, ha modificato il modo di vivere in tutti i Paesi. All’impatto sanitario si sono aggiunti effetti economici molto pesanti. Attraversiamo la recessione più grave della nostra storia moderna. Nel 2020 la caduta del PIL è stata di circa il 9 per cento in Italia, di poco più dell’8 in Francia, dell’11 in Spagna, del 5 in Germania.
La reazione dei governi e delle autorità monetarie in tutti i principali Paesi è stata rapida e di grande portata. I governi sono intervenuti per fornire supporto al reddito di famiglie e imprese. Le autorità europee hanno definito un ampio piano di interventi di emergenza. Il fondo Next Generation EU mira ad accrescere la capacità di reazione agli shock negativi dei singoli Paesi, a rafforzarne il potenziale di crescita e la coesione sociale; nel contempo, sostiene la trasformazione dei sistemi produttivi europei sotto il profilo dell’ambiente e della digitalizzazione.
Le banche centrali hanno agito per contrastare le tensioni sui mercati finanziari. Il Consiglio direttivo della BCE ha rafforzato le misure di politica monetaria esistenti e ne ha adottate di nuove, tra cui il piano di acquisti di titoli legato all’emergenza da Covid-19, il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP), con una dotazione adesso di 1.850 miliardi e durata minima fino a marzo del 2022. Sono state avviate nuove operazioni di rifinanziamento a lungo termine alle banche a condizioni vantaggiose per assicurare che le imprese potessero ottenere i fondi necessari a superare l’emergenza.
La Banca d’Italia ha collaborato con la BCE per la definizione di queste misure. In ambito nazionale partecipa alla Task force coordinata dal MEF per monitorare l’attuazione da parte del sistema finanziario delle misure varate dal Governo a sostegno di famiglie e imprese, come la sospensione delle rate dei mutui per l’acquisto di abitazioni e l’erogazione di finanziamenti assistiti da garanzia pubblica.
In cosa si differenzia la recessione che stiamo vivendo da quelle che si sono avute in passato? Ad esempio quelle del 2008 e poi del 2011.
La recessione del 2008 è nata da una crisi di natura finanziaria, originatasi nel comparto americano dei mutui immobiliari e rapidamente diffusasi nei diversi mercati e Paesi. Ne è seguita una maggiore avversione al rischio da parte degli operatori, che qualche anno dopo si è riflessa in una loro reazione alle vulnerabilità finanziarie e macroeconomiche di alcuni Paesi dell’area dell’euro, tra cui l’Italia.
L’attuale crisi trae invece origine da un’emergenza sanitaria globale, quindi da uno shock esogeno rispetto alle condizioni delle economie dei vari Paesi. Questa crisi produce effetti sul lato della domanda e su quello dell’offerta e ha ripercussioni molto differenziate tra le diverse attività economiche. Mentre in alcuni settori l’impatto diretto dell’epidemia è modesto o nullo, in altri, come il turismo, il trasporto aereo e vari servizi alle persone, è molto pesante. Questa crisi si caratterizza inoltre per un grado di incertezza sulle prospettive future che non ha precedenti nelle recessioni recenti. Per questi motivi le massicce politiche di contrasto, pur limitando le ricadute più severe su famiglie e imprese, non sono riuscite a evitare le perdite di prodotto, che sono state più ampie e rapide di quelle osservate con la crisi finanziaria globale alla fine dello scorso decennio e, nell’area dell’euro, con la successiva crisi dei debiti sovrani.
È molto difficile prevedere quali saranno gli effetti sui nostri comportamenti, sulle abitudini di consumo, sulle decisioni di risparmio. Un dato di rilievo è che, a fronte di tanta incertezza, l’Europa sta dimostrando una capacità di reagire maggiore che in passato attraverso un’azione comune in campo sanitario, economico e ambientale. Diversamente dalle strategie europee per il contrasto delle due precedenti crisi, basate prevalentemente su accordi intergovernativi, nell’attuale emergenza prevalgono le iniziative delle istituzioni comunitarie, spesso con il ricorso al bilancio comune della UE.
Nell’elaborazione dei piani di intervento a sostegno della crescita tutti i Paesi stanno dando molto rilievo al finanziamento della ricerca. In Italia, dove questo settore non ha mai riscosso un grande “appeal”, un intervento economico è “ossigeno” vitale. Secondo lei, il rilancio della ricerca può offrire un impulso positivo al sistema produttivo del Paese?
Da oltre 20 anni il nostro Paese cresce poco o arretra. Le motivazioni sono molteplici: una delle più importanti risiede nella difficoltà di migliorare l’efficienza dei processi produttivi e di creare nuovi prodotti e servizi ad alto valore aggiunto. Soffriamo di un deficit di innovazione, che trova una delle sue ragioni nel livello modesto degli investimenti in ricerca e sviluppo. Questi sono l’1,4 per cento del PIL, meno della metà del livello di economie avanzate quali gli Stati Uniti e la Germania. L’impegno è insufficiente sia dal lato delle imprese, dove la frammentazione del tessuto produttivo limita la capacità di investire sulla ricerca, sia dal lato pubblico. Si aggiunge un livello medio di istruzione ancora non adeguato. L’Italia è il Paese dell’Unione europea con la più bassa incidenza di giovani con un titolo di studio terziario, dopo la Romania, ed è agli ultimi posti tra i Paesi OCSE nel finanziamento del sistema universitario. Questa situazione costituisce un freno all’adozione di nuove tecnologie.
Non si tratta di una carenza nelle capacità. Gli indicatori di produttività e di qualità della produzione scientifica nazionale collocano infatti l’Italia su livelli pari o superiori alle economie a noi più vicine. Puntare su questa risorsa può costituire una grande opportunità, soprattutto se sapremo favorire una più stretta collaborazione tra università, enti di ricerca e sistema produttivo.
L’emergenza sanitaria e le sue conseguenze ci hanno fatto scoprire il nostro lato digitale. Siamo tutti diventati più “connessi” e pronti ad usare il Web per soddisfare anche i bisogni più semplici. E le banche centrali? Come stanno vivendo questa trasformazione digitale? Come stanno reagendo?
Le banche centrali sono da sempre attente alla trasformazione digitale, anche perché essa influenza variabili cruciali nella trasmissione della politica monetaria. È indubbio che la pandemia e le misure adottate per limitare il contagio hanno contribuito ad accelerare, anche per le banche centrali, processi già in corso da tempo. Ad esempio, è stata aumentata la dotazione digitale per consentire a pressoché tutto il personale di lavorare a distanza e garantire la continuità dei servizi offerti alla comunità. Come Banca d’Italia siamo impegnati per rafforzare la digitalizzazione del Paese in ambito finanziario e garantire l’inclusione delle fasce di popolazione che attualmente hanno minori competenze informatiche. Tra le iniziative messe in campo c’è l’apertura, ormai da qualche anno, del “Canale FinTech”, un punto di contatto con gli operatori che ci consente di conoscere in anticipo i progetti di innovazione tecnologica nel campo finanziario. A dicembre 2020, inoltre, abbiamo inaugurato “Milano Hub”, un polo che coinvolge industria e accademia nell’analisi e nel sostegno di progetti innovativi.
Non va dimenticato, infine, il possibile impatto della digitalizzazione sull’emissione di moneta. La consultazione pubblica avviata dalla BCE sulla possibile introduzione di un euro digitale si è conclusa di recente e ha suscitato grande interesse. Seguiranno studi preparatori sulla base dei quali il Consiglio direttivo valuterà se avviare un progetto volto a definire le caratteristiche di una forma digitale dell’euro. Il processo richiederà molta cautela, ma il suo avvio conferma la capacità di reazione delle banche centrali alle opportunità offerte dalla trasformazione digitale.
Guardando ancora agli effetti sociali dell’epidemia, secondo lei, nell’individuo è cambiata la percezione del futuro?
La crisi sanitaria ha indotto mutamenti nelle abitudini e imposto restrizioni alle interazioni sociali. Non sappiamo ancora se quello che stiamo vivendo modificherà stabilmente i nostri comportamenti e le nostre aspettative. È possibile che alcuni cambiamenti abbiano natura temporanea, altri potrebbero essere duraturi. Penso al rapporto tra vita privata e vita lavorativa che lo smart working sta ridefinendo nell’ambito di numerose professioni.
L’incertezza e le restrizioni ispirano comportamenti prudenti, facendo innalzare la propensione al risparmio, e rendono difficili i progetti per il futuro. I giovani, in particolare, sono penalizzati. La didattica a distanza, a cui si è fatto ampio ricorso, riduce le opportunità formative e accentua gli squilibri sociali; l’inserimento nel mercato del lavoro è rallentato; ne consegue una riduzione della formazione di capitale umano. Guardando al futuro è necessario sostenere la fiducia delle persone e delle imprese, mostrando una forte capacità di investire oggi sulle future generazioni.
Lei è il Direttore Generale della Banca d’Italia ma è anche il Presidente dell’IVASS, l’Istituto che vigila sul mercato assicurativo. Questo fa pensare che vi sia una complementarietà tra il mercato bancario e quello assicurativo e tra la vigilanza bancaria e assicurativa. È così? Il settore bancario e quello assicurativo sono simili, guardando ad esempio ai servizi che offrono?
Il settore bancario e quello assicurativo sono mondi contigui. In passato l’elemento di contatto era rappresentato prevalentemente dal modello della cosiddetta “bancassicurazione”, cioè dalla distribuzione delle polizze assicurative attraverso gli sportelli bancari. Progressivamente l’integrazione tra banche e assicurazioni si è rafforzata, con la partecipazione reciproca al capitale di rischio, la presenza dei due segmenti di attività nell’ambito di uno stesso gruppo e la formazione di veri e propri conglomerati finanziari.
Questo ha anche comportato una progressiva convergenza tra le normative che disciplinano i due settori e, per vari aspetti, anche tra i due istituti di vigilanza. Oggi la struttura organizzativa dell’IVASS è integrata con quella della Banca d’Italia. È chiaro che, a fronte delle convergenze, tra settore bancario e assicurativo permangono differenze rilevanti, soprattutto circa le tipologie di prodotti offerti e le esigenze che sono destinati a soddisfare. Questo è vero in particolare per il cosiddetto ramo “danni” delle assicurazioni, che tutela da eventi che danneggiano il patrimonio o le possibilità di guadagno; le differenze sono più sfumate nell’offerta di prodotti di risparmio e di gestione previdenziale rivolti alle famiglie.
Per concludere, la crisi ha colpito quasi tutti i settori economici. Qual è una possibile ricetta per uscire fuori dalla recessione? E in questo senso, quale può essere il contributo della ricerca in campo scientifico, economico, sociale, digitale e così via?
Fino a quando non saremo in grado di rimuovere le limitazioni alle interazioni sociali, l’attività produttiva resterà rallentata in interi settori; famiglie e imprese resteranno in condizioni di elevata incertezza. Gli interventi pubblici e la politica monetaria possono alleviare i costi sociali e possono salvaguardare la sopravvivenza delle imprese, ma non impedire la caduta della produzione. La disponibilità di vaccini e cure è il fattore più importante, anche per la ripresa dell’economia.
La ricerca scientifica è cruciale. Senza gli avanzamenti della medicina e delle biotecnologie oggi saremmo costretti a perseguire l’immunità di gregge lasciando circolare il virus, con costi di vite umane enormi. Inoltre, senza le innovazioni nel campo digitale le misure di distanziamento avrebbero paralizzato comparti ancora più ampi della nostra economia.
Guardando al futuro, si prospetta un periodo di cambiamenti nei modelli di consumo, produzione, commercio internazionale, determinati dagli effetti della pandemia, dall’esigenza di contrastare il riscaldamento globale e dallo sviluppo della digitalizzazione. Non sappiamo ancora quali saranno i nuovi equilibri, ma sicuramente dobbiamo costruire le condizioni per poterci adattare rapidamente ai cambiamenti. L’Italia deve colmare i suoi ritardi nell’innovazione e nella formazione di capitale umano.
Lo sviluppo di un’economia avanzata si innesta sulla conoscenza, quella cristallizzata nelle tecnologie, quella che si sedimenta nelle persone (il capitale umano), quella che si crea nelle università, nei centri di ricerca e nell’attività innovativa delle imprese. Per tornare a crescere occorrono investimenti innovativi e la capacità di modernizzare il tessuto produttivo e il settore pubblico (amministrazioni, scuola, sanità), in modo da poter trarre pieno beneficio dai progressi scientifici e tecnologici su cui l’Europa e tutte le economie avanzate contano per affrontare le sfide davanti a noi.
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